Secondo quanto riportato dai principali organi di stampa italiana, la Procura di Milano ha recentemente chiuso le indagini nei confronti di due rappresentanti legali di Meta Platforms Ireland Limited, titolare, tra gli altri, dei social network Facebook e Instagram, per una presunta evasione fiscale relativa al mancato versamento dell’Iva tra il 2015 e il 2021, pari a 877 milioni di euro su un imponibile di circa 4 miliardi di euro.
Con una nota dello scorso 9 dicembre, il Procuratore Marcello Viola ha chiarito che l’omissione del pagamento dell’Iva sarebbe legata al processo di iscrizione degli utenti alle predette piattaforme. Sebbene l’iscrizione sia gratuita per gli utenti, Meta otterrebbe un beneficio economico significativo attraverso la raccolta, profilazione e utilizzo commerciale dei dati personali e delle attività svolte dagli iscritti. Secondo la Procura, questo scambio, basato su una tesi di “permuta di beni differenti”, rappresenterebbe un valore economico che dovrebbe essere soggetto all’Iva al 22%.
La ricostruzione avanzata dai magistrati milanesi è considerata innovativa e potenzialmente rivoluzionaria. Secondo gli inquirenti, i dati personali degli utenti, profilati e diffusamente trattati, sono stati una risorsa di grande valore per Meta, che li ha utilizzati per vendere pubblicità mirata e generare profitti. In questa logica, like, commenti e condivisioni assumono un valore economico quantificabile, che l’azienda indagata avrebbe sottratto al fisco italiano per anni.
Questa vicenda non si limita alla dimensione fiscale, ma riporta al centro del dibattito pubblico la questione della privacy e del valore economico dei dati personali. Da tempo esperti e attivisti denunciano il ruolo cruciale dei dati nella strategia di profitto delle grandi aziende tecnologiche, e l’indagine su Meta sembra confermare, ancora una volta, tali preoccupazioni. I dati degli utenti si configurano sempre più come una delle principali fonti di reddito per i colossi digitali.
Le possibili conseguenze di questa vicenda potrebbero essere rilevanti e avere un impatto su scala globale. Difatti, se la tesi della Procura meneghina venisse confermata, si potrebbe creare un precedente importante, stimolando altri Paesi dell’Unione Europea a verificare le pratiche fiscali delle principali piattaforme tech (e non solo). Inoltre, l’attenzione generata dal caso potrebbe stimolare nuove riflessioni per opportuni adeguamenti alle normative in materia di protezione dei dati personali. Si potrebbe giungere all’introduzione di regole più stringenti per la raccolta e l’uso delle informazioni personali, spingendo le aziende a riconsiderare i propri modelli di business e ad esplorare strategie di ricavo che non si basino esclusivamente sulla monetizzazione dei dati degli utenti.